Da giovani si è rivoluzionari per definizione, e quindi si fanno un sacco di valutazioni sbagliate. In musica (ed in Italia) una delle meno azzeccate è che San Remo non sia realmente rappresentativo del paese ad ogni livello. Segue un resoconto del mio San Remo 2019 visto dal divano, ovvero canzoni ascoltate per caso nelle pause pubblicitarie dei film all'ennesima replica sugli altri canali, alcuni spezzoni guardati volutamente e con interesse, notizie raccolte da giornali e social media e confronti a 360 gradi con la realtà delle cose, tutto rigorosamente per temi in ordine casuale.
1) Il conflitto d'interessi – Che il direttore artistico (nonché presentatore) sia un cantante non agevola, ma se poi, tranne nella prima serata dove sono stati presentati tutti i 24 brani in gara, nelle serate dove ci sono solo 12 esibizioni dei big il fatto che il suddetto direttore canti (e/o fa cantare ad altri) praticamente tutte le sue canzoni un po' incazzare mi fa, nonostante il mio attuale livello di disillusione. Baglioni è ben pagato (e visto gli introiti che genera in Rai se li merita), non gli bastavano? Se fossi attivo sui social gli chiederei quanto prende di dirittti d'autore a fine festival... Ah, ci scappa pure il mega spot gratuito con Bisio complice per il cofanetto di dischi rimasterizzati in uscita.
2) Gerontocrazia - San Remo è pieno di vecchie glorie, sia in gara che tra gli ospiti, e mi vien da dire per fortuna. I giovani, soprattutto quelli che provengono dai talent show, cantano male. Sarà per la mancanza di gavetta, sarà perché i criteri di selezione sono diversi a quelli del passato. C'è n'è uno che si chiama Irama che piace alla figlia della mia morosa: stonatizzo e debole. I rapper non riescono quasi mare a starci dentro con la metrica. Intonazioni zoppicanti dovunque. Salvano la baracca i vecchi: Nek e Renga, che il genere piaccia o meno, sono dei signori cantanti. Tra i superospiti la Mannoia, nonostante che per l'età abbia perso almeno mezza ottava di estensione, comunque non stecca mai e fa brillare ogni nota. Le vecchiette coi capelli colorati non risultano comunque meno patetiche di tanti altri. L'unico relativamente giovane che tiene botta è Mengoni, un altro interprete vero.
3) Dilettantismo al potere, in questo caso dei fonici - Non mi stancherò mai di dirlo e magari sono evidentemente prevenuto, ma in Italia, e quindi pure a San Remo, la musica dal vivo si sente spesso male, e penso sia un problema di cultura e selezione degli addetti. Mix impastato e spompo, niente che suoni veramente bene. E dovrebbe essere il top della Rai.
4) Il rivoluzionario – Che sarebbe un tal Achille Lauro, a cui l'epiteto “rivoluzionario” è stato in questi giorni appiccicato da chiunque, anche da critici che credevo attendibili. E' vestito un po' strano ma con un stile incoerente fatto di un insieme raccogliticcio di elementi. Gli occhialetti alla Ozzy, le giacche colorate alla Miami Vice. Canta una canzone banalissima che parla di vita di rock-star, cercando di citare Vasco ma più che altro dando l'impressione di produrre una grottesca copia degli Skiantos, le cui intenzioni erano peraltro di prendere tutti per il fondelli. Sarà che da giovane ero un guevarista, ma se per rivoluzionario si intende “edonista reaganiano” ridateci De Michelis, che era brutto e unto ma ha fatto e visto cose che noi umani non riusciamo neanche ad immaginare (a proposito di citazioni). E daltronde se i rivoluzionari attualmente al governo non ripropongono altro che vecchi schemi assistenzialisti non c'è da stupirsi.
5) La sinistra che non c'è – Incarnata nella persona di Daniele Silvestri, che normalmente mi piace e che propone uno dei pochissimi pezzi ben scritti ed arrangiati. Ma nel festival dell'effimero fa la figura di quello che vuole fare l'impegnato per forza. Avesse portato una “Salirò” o una “Gino e l'Alfetta” poteva brillare, in questo caso no: fuori posto e fuori tempo. |